Il presidente del Vesta: “La nostra è una missione, che deve consentire ai ragazzi di tornare a sognare il professionismo senza scorciatoie”
Il Vesta è una realtà nell’autodefinizione e nei fatti diversa dalle altre. Dall’utilizzo della tecnologia a scopi di prevenzione e potenziamento, passando per la scelta dello staff, fino ai particolari identitari come i colori, il logo e la maglia, la società del presidente Gian Luca Comandini è un unicum nel panorama dilettantistico laziale. Proprio per questo MYSP lo ha intervistato, per scoprire di più su obiettivi e progetti di una società dalla spiccata riconoscibilità e dalle grandi ambizioni.
Salve Presidente, cosa differenzia il Vesta dalle altre società del panorama dilettantistico laziale?
“Il Vesta si differenzia per metodologia e finalità. Innanzitutto, non c’è finalità speculativa. Io controllo una holding con oltre 15 aziende, non ho bisogno di guadagnare da questo. È una missione, che deve consentire a tanti ragazzi di tornare a sognare di diventare professionisti senza scorciatoie o essere eliminati a priori. Dall’altra parte le metodologie: noi utilizziamo metodi che non esistono troppo nemmeno nel calcio professionistico. Utilizziamo tanta tecnologia perché ognuno di noi, me in primis, siamo docenti universitari in ambito tecnologico, siamo imprenditori che hanno applicato già innovazione e tecnologia in tanti altri settori e che adesso lo vogliono fare nel calcio per rivoluzionarlo. Quindi diciamo che questo mix di metodologia, visione e obiettivi, che non esiste in nessun altro spazio nel mondo dilettantistico, è ciò che siamo convinti possa portare a rivoluzionare davvero questo settore”.
In cosa consiste l’innovazione tecnologica che volete portare nel calcio?
“Al centro di tutto ci sono i dati. Per noi sono il vero oro del terzo millennio. Oggi un dato vale più del petrolio stesso, e questi sono ad oggi il fulcro di ogni nostro approccio tecnologico. Noi utilizziamo tecnologie come l’intelligenza artificiale, la blockchain o l’internet of things, e in comune hanno la raccolta dei dati, la loro analisi e il loro utilizzo per scopi preventivi. Partiamo dal dato, che può provenire banalmente dal parastinco intelligente, dalla pettorina GPS, da una telecamera, dai flussi finanziari del nostro bilancio e dei nostri sponsor, e da questo creiamo degli algoritmi e dei protocolli in grado di permetterci di prevedere degli esiti, nell’ambito ad esempio della prevenzione infortunistica o nella previsione di che tipo di allenamento si addice di più a un determinato giocatore, ma anche nella dimostrazione della trasparenza e della tracciabilità dei nostri flussi finanziari nei confronti di uno sponsor, che quindi la seconda volta deciderà probabilmente di investire più denaro perché vede come è stato impiegato, avendo quindi un riscontro diretto nella crescita della società di calcio stessa”.
Che impatto ha avuto sui giocatori l’utilizzo delle tecnologie da lei menzionate?
“I parametri delle prestazioni dei nostri calciatori vengono presi in tempo reale non solo in partita, ma anche e soprattutto durante gli allenamenti. Questo ci consente attraverso dei professionisti di avere da subito i primi alert e di capire immediatamente se qualcuno è al di sotto delle sue prestazioni medie, se si sta per infortunare o ha una piccola lesione della quale non si sta accorgendo. Questi dati vengono rielaborati, studiati, interpretati e mostrati. Noi abbiamo un giorno a settimana dedicato alla cosiddetta match analysis, ma a un livello superiore: facciamo vedere a tutti i nostri giocatori i loro dati e quelli dei loro compagni, mostriamo loro schematicamente, attraverso delle infografiche, dove ci sono stati dei cali e dove migliorare quei dati, che passano quindi dall’essere prima teorici e poi pratici”.
Un esempio di riscontro pratico?
“Quello del nostro portiere Davide Mangerini, che ha un passato di oltre dieci anni nelle Giovanili della Lazio. È stato nel professionismo, poi ha deciso di smettere per dedicarsi alla vita imprenditoriale. A oltre 30 anni la voglia di giocare era tanta, ma la paura di infortunarsi ancora di più, e grazie alle nostre tecnologie e tipologie di allenamento non solo abbiamo prevenuto qualsiasi infortunio, ma si è divertito e da due anni non salta neanche una partita. È diventato il giocatore fulcro della squadra ed è sicuramente anche grazie a lui abbiamo raggiunto questi risultati. Questo è solo un esempio, ma potrei parlare anche di giovani della Juniores che fino a due anni fa non erano troppo considerati. Nel momento in cui abbiamo dovuto utilizzarli per la Prima Squadra si sono allenati con determinate tecnologie e un paio nello specifico sono letteralmente esplosi. Ci siamo accorti di avere dentro casa dei talenti che altrimenti non saremmo riusciti a vedere”.
Servono però figure in grado di potersi interfacciare correttamente con queste tecnologie.
“Questo è fondamentale. A dire il vero, e non è bello per il panorama italiano, questa è stata la parte più difficile. Per assurdo, l’ostacolo non è il costo delle tecnologie, ma trovare professionisti che conoscano la lingua che stiamo parlando. Oggi, soprattutto nel calcio locale, c’è la ricerca della figura dell’allenatore da strada, cresciuto sui campi, che mangia pane e calcio da quando è nato. Invece no, noi siamo andati a cercare tecnici Under 30 – 35 che hanno studiato queste cose all’università, che ci hanno investito tempo, denaro e anni di studio. Gli staff delle altre squadre ci guardano come fossimo alieni, in realtà essere gli unici oltre a pochi a saper utilizzare queste tecnologie ci permette di avere un bel margine di crescita e di portare risultati in campo. Nessuno capisce che la teoria si traduce nella pratica: la tecnologia ti permette davvero di fare quel gol in più”.
Questo ha portato all’inserimento nello staff di figure non conosciute nel panorama dilettantistico laziale.
“Un esempio è Edoardo Ruggeri, il nostro direttore dell’Area Tecnica. Chiunque lo incontra in ambito calcistico mi fa i complimenti, è un predestinato. Oggi ha una fama importante, è considerato un grande manager dello sport, ma tre anni fa era uno studente di master che sognava di fare questo nella vita. Abbiamo scelto di dargli questa opportunità e oggi ci ha ampiamente ripagati”.
Però anche una figura come l’ex Pro Calcio Tor Sapienza Giuseppe Zottola ha deciso di abbracciare il progetto Vesta.
“È un Direttore Generale che viene da tre anni alla Pro Calcio Tor Sapienza, una realtà storica, vincente e importantissima di Roma, più importante e più grande di noi. Zottola ha deciso di dimettersi e di rinunciare a quella carriera già avviata per ricominciare da capo in una realtà come la nostra. Molti non stanno capendo e si chiedono il perché, e quando qualcuno viene a conoscerci non solo capisce cos’è che attrae tutte queste persone, ma il passo successivo e inevitabile è che ci chiede anche lui di entrare. Questo è bellissimo”.
Quali sono le vostre aspirazioni?
“Noi siamo partiti e cresciuti in maniera molto naturale, abbiamo fatto tutti i passi giusti senza mai farne uno più lungo della gamba. Quest’anno partiranno la Scuola Calcio e tutte le categorie giovanili. Prima avevamo Prima Squadra e Juniores. La Prima Squadra fa la Prima Categoria, ma ha un organico che potrebbe competere anche in Promozione, se non in Eccellenza. Puntiamo infatti a stravincere il campionato di quest’anno, oltre che ad arrivare in Élite con la Juniores. Il nostro obiettivo è diventare il terzo polo romano. Non solo la terza squadra professionistica a Roma dopo Roma e Lazio, un obiettivo che tanti hanno inseguito per molto tempo, ma anche il terzo polo di attrazione: il bambino che nasce oggi e che vuole giocare a calcio non deve sperare di arrivare per forza alla Roma, alla Lazio o alle 4-5 realtà storiche, deve poter dire di voler andare al Vesta perché si diverte, perché c’è tecnologia, c’è crescita, perché domani potrà avere una visione di gioco diversa, molte opportunità e porte aperte. Questo è fondamentale”.
Parlando invece dal punto di vista economico, cosa significa lavorare con la blockchain per garantire trasparenza?
“La mia idea è stata di utilizzare la tecnologia blockchain per tracciare e rendere immutabile il nostro bilancio, affinché si potesse permettere agli sponsor di investire su di noi in tranquillità. Oggi nel calcio dilettantistico molte aziende pulite non sponsorizzano perché sanno che nel 90% dei casi ci si trova di fronte a scatole vuote create da imprenditori per riciclare denaro o abbassare le tasse. Nel nostro caso abbiamo dimostrato che non ci interessa fare questi giochi, che noi siamo puliti e che ogni euro che entra si può vedere in modo trasparente. Questo ha portato a far investire aziende che mai nella loro vita si erano avvicinate al calcio locale. Nel calcio dilettantistico non mancano i soldi, non ci sono le opportunità. Fornendole e portando nuove idee, le imprese arrivano e sono disposte a darti i soldi”.
Una domanda anche sulla vostra identità. Perché chiamarsi Vesta? Da cosa deriva il colore arancione? E il simbolo del fuoco?
“Il nome Vesta viene dalla storia romana, è l’antica dea che proteggeva Roma, ma soprattutto il focolaio domestico, quindi i nostri cari, i nostri amici e il nostro quartiere. Questa società doveva nascere con delle radici salde, di amicizia e di comunità, e ce le porteremo anche nel nostro animo e nel nostro spirito. Poi, come pochi sanno, Vesta era la dea a cui era devota la madre di Romolo e Remo, che hanno fondato Roma su sua ispirazione. Quindi è un ringraziamento a Roma, ma anche un augurio di comunità e di collaborazione, perché il nostro motto è “la collaborazione è più forte della competizione”: noi lavoriamo tantissimo insieme ad altre realtà, dilettantistiche e professionistiche, per crescere tutti insieme rapidamente. L’obiettivo non è arrivare primi, ma far sì che tutto l’ecosistema possa tornare a splendere come un tempo, perché se ad oggi le nazionali italiane non riescono neanche a qualificarsi a competizioni europee o mondiali c’è un motivo, e noi dobbiamo chiedercelo. Il perché è forse la ragione per cui un bambino se non ci sono i soldi per pagare un DS o un provino non ha modo di arrivare, nessuno ha davvero interesse a portarlo. Noi vogliamo ribaltare questi schemi e tornare al calcio di 50-60 anni fa. Puoi nascere anche in periferia o in mezzo ai campi, se sei forte ti mangi tutti gli altri”.
Da cosa deriva il colore arancione?
“Per quanto riguarda il colore, dovevamo sceglierne uno che fosse simbolo della nostra rivoluzione. Se ci pensiamo non esiste una persona che dica “il mio colore preferito è l’arancione”. È un colore che nessuno considera, che sta sempre da parte. Noi siamo questo, una realtà piccolissima nata da un oratorio, nessuno ci considerava. Nei primi due anni ci prendevano tutti in giro, oggi vogliono avere a che fare con noi e venire a giocare da noi. È anche un colore eccentrico, non ti aspetti i suoi esiti, non sai a cosa potrebbe servire. Non sta bene con nulla ma lo puoi mettere dappertutto, e questo è il Vesta. Poi soprattutto è il colore del fuoco, del Bitcoin, della tecnologia, dell’innovazione, dell’osare. Noi vogliamo osare e oseremo continuamente”.
Quali sono gli altri elementi identitari di cui andate particolarmente orgogliosi?
“Il logo, sul quale c’è uno studio grafico di professionisti. Le nostre divise, migliori di quelle di tante squadre di Serie A. Sui social siamo seguiti da migliaia di persone, le nostre partite in streaming sono viste da centinaia. Dati che a questo livello non si sono mai visti. Noi sappiamo divertirci, siamo dinamici, sappiamo come fare rumore e alla gente piace seguirci”.
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